sabato 31 maggio 2014

L'informazione (primavera 2013)

Gli spettatori del telegiornale,
bene vestiti, lavatisi a sera
dopo lavoro, a fatica, in famiglia,
significanti nell'aria, battenti,
e non si parla.
Quiete. Il bambino
non piange. Non sente. Pre-sente: macchia
sulla tovaglia, fatica a lavare.
Nessuno che grida: questo è importante:
rumore fa niente, televisione.

Silvero e la francese madame,
(s'ignora, Bene scherzava), cattiva,
maestra di tante puttane, giocavan
di sotto a sottane '800,
pria che ci coprisse il cemento.
E ancor la violenza era
sensata la vita.
Silvero il signore sinistro
rompeva i grumi nel secchio,
n'usava di sangue d'uccello,
muoveva apparati con dita.
Scoppiettava allora il caminetto:
le cose malnate almeno animavan
rigetto. Ma vegeta ora soltanto
von Kulp Fraulein la conduttrice,
al telegiornale suoi conoscenti,
impiastricciati capelli Tiziano;
e botox, il rutilante rinnovo.
Legge da un foglio. Senza pietà
legge da un foglio per la famiglia,
sterìle progenie del loglio,
con grande maniera. Non sente.
Macchia
in studio - cadrà qualche testa.

La notte, dopo due botte - il tuono:
quello che disse è perduto
                                               nella
memoria,
scrigno più buono.
A mattina la natura
sgrappola gemme su tutto il terreno,
verdi e già marce nel seno.
Il bambino rinviene per sbaglio
una bibbia; sfogliando
nascosto rimembra la
scala, un'abbaglio,
cerchi intrecciati come
fibbia che cade,
cade dal cielo, è andata
fuori dal senno, giù sul terreno,
pallina pel cane;
mamma allora lo picchia,
il padre ubriaco impila del pane.

Ripeti con me come il frate:
i crematorii i forni
raschianti il problema a radice
ci mancano e li invochiamo
come cani una secchiata
sulla cervìce,
il novecento, breve,
dura tuttora,
siam fermi, siamo rimasti
come una pala invischiata,
come conferma che niente
cambierà mai e poveri noi
pria che il fuoco ritorni
e finalmente apra di nuovi giorni:
ch'una carezza ritorta
di terra io possa
scrivere
ora.

mercoledì 28 maggio 2014

15 segni di intelligenza nel ventesimo e ventunesimo secolo


1. Uno spiccato senso dell'ironia, conquistato non contro, ma grazie a una radicata tendenza al sentimento assoluto e idealistico. Fare molta autoironia, o nessuna.
2. Un'infanzia e/o adolescenza problematiche, a seguito di una maturazione ostinata a svilupparsi secondo linee non assimilabili alla media. Di conseguenza, avere difficoltà a ritrovarsi nelle categorie con cui gli altri si descrivono (un esempio a caso: l'"intelligenza").
3. Se si prende sul serio la vita, si è incapaci di prendere sul serio la scienza; e viceversa (finché, dopo diverse vite, non si sviluppa magari una sana disgiunzione fra la serietà come atteggiamento e la serietà come peso che si subisce dalle cose).
4. Difficoltà ad avere a che fare con gli altri, o perché si è troppo socievoli e si è stati costretti dalla logica della tribù a diventare riservati, o per via del contrario.
5. Più si va avanti con gli anni, più si amano gli animali e/o i bambini. A meno che non si conservi una certa paura degli adulti, non rendendosi conto che anche loro, in fondo, sono bambini.
6. Amore per il giocare, comunque si declini.
7. Istintiva diffidenza per il sociale, il comunitario, il nazionale, lo statale - a meno che non vi si partecipi, "serissimamente".
8. Istintivo odio, diffidenza o paura per il lavoro come "occupazione" - specialmente se non se ne ha uno.
9. Istintivo odio per la scuola (ma esiste anche l'opzione di odiare tutto il resto).
10. Istintivo amore o interesse per le cose che appaiono strane, assurde, difficili, sconvolgenti, forse per un senso di profonda affinità con ciò che si trova abituale.
11. Non sentire niente quando si commuovono tutti. Occasionalmente, commuoversi per cose che non vede nessuno (perché non le vede nessuno).
12. Capire istintivamente quando gli altri non stanno capendo quello che dicono. Per questa ragione, farsi dei problemi infiniti sul senso di quello che la gente abitualmente dice. A meno che non si sia capaci di fottersene.
13. Capire facilmente quasi tutto, ad eccezione del senso delle astrazioni formali, della finanza e del comportamento sentimentale degli esseri umani del sesso opposto. A meno che non si sia capaci di fottersene.
14. Considerare una qualsiasi lista o categorizzazione inesauribile, e quindi un po' stupida. Amare tutto ciò che dichiara la propria unicità, anche patologica, e non è elencabile a fianco di nient'altro (meraviglia come inizio della filosofia) (la scienza come eterna scategorizzazione gaudente del reale).
15. Considerare il "genere", sia esso "scientifico" o di "intrattenimento" - poniamo, ad esempio, le liste come questa - come qualcosa di poco serio, da deturpare per strapparne il senso (Bene che "vince la sfida del modale"). Ad esempio, se si sta parlando dell'intelligenza, menzionare che l'intelligenza menziona l'intelligenza, di modo che (poiché "non esiste metalinguaggio") si capisca che il discorso era sull'intelligenza della stupidità - e, forse, si sorrida.

lunedì 26 maggio 2014

[Il rovescio della psicoanalisi]


Perché il rovesciamento costitutivo è il campo su cui oggi si gioca.
(Notate l'ordine; notate, e vi prego, non fatevi confondere da, la non-località del senso)

domenica 25 maggio 2014

La mente (inverno-primavera 2008-2009)

La poesia filosofica: ciò cui ricorsi, negli anni universitari, come una transizione, per dare un senso progressivo, costruttivo, persino etico a quella periodica ansia espressiva per la quale credevo di dover trovare una giustificazione. Ciò produceva spesso risultati macchinosi, insinceri, falsamente trionfali: la tipica malattia dell'uomo investito dalla "missione spirituale", per la quale non solo bisogna pensare di stare su una via, ma bisogna anche far finta, prima di tutto di fronte a sè stessi, che codesta via ti renda "perfettamente" felice. La poesia filosofica era un tentativo reiterato, un po' ossessivo, di descrivere e accennare a questa via fittizia verso il sublime.


La mente è quella scatola
cava e aperta all'intorno
infinito. Va avanti
senza ritegno e, forse
in sogno, al modo di un ago
traccia un ordito privo
di inizio - o di ritorno.
Sostegno al suo vagare
non v'è, anche se pare:
tutto ciò ch'è digesto
si fa prima presenza,
poi gesto, poi corpo e
poi assenza. Pressappoco
così si tesse il vivo,
un gioco intorno al tempo,
una posta di scie
che saziano a vicenda
la sete. Non c'è sosta.
Come vorrai afferrare
sia l'io che il mondo se
non c'è una locanda ove
fermarli? Pure, io ricordo.
Come lo specchio pare
predire e figliar nuova
copia d'ogni faccenda
che avanti gli appare, anche
chi vaga e sente cova,
cupido - e non indaga.
E' la luna nel secchio.
Certo non è vero astro,
ma più simile a un eco
o opportuna assonanza,
incastro e nuovo e vecchio
onde tu trai l'usanza
de' concetti di "fuori"
e di "dentro", di "falsi"
e di "veri". Anch'io
se mi cerco da solo
quasi rientro e rivivo
un elenco di "ieri",
a cui inver non arrivo.
Allor è come andare
per campi attraverso una
via che ha visto di fiori,
cimiteri e di sterco.
E' la mia, chè ne son
penna, tratto, cornice
e pittore; ma dietro
i colori è il mistero:
il suo strano valore.


Già... come se si fosse già "arrivati", e, da una finestra, al tramonto, si contemplasse il cammino fatto, che è totalmente visibile, e insegna l'ovvio. Ma questa poesia, credo, ha dei meriti: in primis il modo in cui la visibile tendenza a moltiplicare il più possibile, anche a caso, i legami fonetici, a cascata, di verso in verso, per giunta in un parossismo di settenari veramente da ipermetrica, si lega in qualche modo al tema. Si ha infatti davvero la sensazione di una rete di scie, spontanee, casuali, a metà fra il soggettivo e l'oggettivo (non-locali), che l'un l'altra si richiamano in continuazione, senza costrutto, a cascata, come se questa descrizione (significato) di un'immagine filosofica del processo "mente" fosse essa stessa un flusso parte di quel processo, essa stessa il viaggio di cui parla (significante). In questo modo quello che si metterebbe in mostra in questa sorta di filastrocca sarebbe proprio un'ipotesi di costruzione di una logica del senso a partire, come dire, dal puro niente prosodico.
Certo, non è, come sempre nel caso di queste mie proto-poesie, qualcosa di del tutto voluto o consapevole. Ma fa piacere pensare che le proprie ossessioni, anche quando puramente patologiche o frutto di immaturità, tornereranno presto o tardi utili a qualcuno - o a un discorso sul senso della vita.

mercoledì 21 maggio 2014

Vicino a casa tua


Oggi vorrei chiedervi: cos'è, per voi, la follia? E' qualcosa di estraneo, incomprensibile, spaventoso, hic sunt leones, da tenere lontano? E' qualcosa che spiate in voi, in certi momenti abissali, un "ospite inquietante"? E' un nome che date a certe vostre ebbrezze, bellissime, che vi fanno sentire come se volaste? E' un mero fatto clinico da neutralizzare farmacologicamente?
A volte, io dico, può anche essere una scusa.
Recentemente ho visto in televisione un reportage su alcuni centri di internamento per criminali giudicati "incapaci di intendere e di volere": gli "ospedali psichiatrici giudiziari". Sì, quelli in cui è andato Marino con un'ispezione a sorpresa a favore di telecamera. Non credevo che situazioni del genere, non dico dall'800, ma per lo meno da Basaglia in poi, potessero continuare a esistere. (escrementi tonaco scrostato gente che urla assassini e ladri di mele letti di contenzione piaghe da decubito sovraffollamento corpi grassi sedati ruggine sbarre sporco nessun tribunale, forse per tutta la vita: oggi, vicino a casa tua.)
Ci sono stato di nuovo male.

Come ha illustrato Foucault nella sua Histoire de la folie, nel '600, in concomitanza con l'alba della "ragione moderna", viene istituita in Francia (e in altre zone d'Europa) la figura giuridica dell'internamento - reclusione forzata in case di lavoro e a volte di tortura che non passa da nessun processo, dato che il responsabile dipende direttamente dal re. Già dopo la metà del secolo a Parigi una discreta percentuale della popolazione è internata. Si internano non solo i "malati di mente" - categoria che in effetti all'epoca non è ancora presente; si internano poveri, gente che dà scandalo, e così via. Foucault cerca di ricostruire come tutta un'immagine di una sragione, esistente in ogni uomo e il cedimento alla quale rappresenta la colpa antisociale par excellence, stia alle spalle di questa aberrazione ai nostri occhi immane. Nella sua ottica, la costruzione, a partire dall'illuminismo, della categoria della "malattia mentale", l'abolizione del "vecchio" internamento e la costruzione di un internamento specifico in ospedali psichiatrici per il neonato "malato di mente", rappresenta allora l'atto finale mediante il quale l'occidente termina di costruire in sè stesso un'immagine astratta di "ragione", esiliando all'esterno, come "altro", con cui nemmeno si può parlare, chi (magari fisiologicamente) si rivela incapace di adattarvisi.
Questo processo oggi è sostanzialmente passato: la "ragione" da motivatore e baluardo di un'etica (imposta come) condivisa, si è fatta blasone e provincia di una casta di accademici o tecnici addetti ai lavori. La gente sempre più la lascia perdere: viene alla luce come la follia rinvenuta nell'altro è sempre stata uno specchio - una proiezione - delle incongruenze e irrazionalità proprie della società stessa: il malato di mente come prodotto sociale - seppure magari già biologicamente predisposto ad essere agevole ricettacolo di questo ruolo. Ma, sebbene quel mondo in cui un simile processo era ancora invisibile e portante sia ormai tramontato, esso, come il Dio di Nietzsche, pare voler continuare a essere agitato come un ombra ancora per molto tempo. Nel più profondo della caverna sociale, dove nemmeno più si vuol "dare l'esempio", ma semplicemente si decompone il cadavere della storia.

sabato 17 maggio 2014

La condizione adolescente (primavera 2014)

Aspetta e sperma
- il motto del liceale
che, chiuso a chiave,
se ne inventa un chiavare
- non essendo più lui
                                    - ahimé! -
che decapita quel cazzo di Erma!

mercoledì 14 maggio 2014

Kulturkampf


Scrivere. Il flusso di coscienza. L'addormentamento della coscienza. A cosa serve scrivere? Perché tengo questo blog, anche se non so nemmeno se e chi lo legga?
Forse scrivere non serve proprio a niente - e ciononostante, una volta iniziato, quell'abitudine che ci porta a continuare a farlo permane. C'è una tensione che da un certo punto in poi ci abita, tensione verso la scrittura perfetta - l'espressione perfetta, l'espressione che dice tutto quello che c'è da dire - che fa sì che l'autorivelarsi del nostro carattere in righe di testo lanciate contro il nulla assuma ogni volta la fisionomia di una lotta d'amore. Finché alla fine ti lasci andare.

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.


Neanche amare serve a niente. E la storia? Ma se buttiamo via l'"utile" stesso - perché in effetti non serve a niente - come dire ancora cosa resta da fare? Allora giustamente si introduce il concetto di "grazia" - la gratuità del bello. Ma, al tempo stesso, così ti trovi di nuovo e sempre nel deserto, dove il niente e il desiderio si contendono le tue giornate, rischiarati a volte da un lampo di tempo sul tempo, con i "campanelli nella testa" - che poi magari ti illudi di scrivere. Ma no, non puoi: la tensione stessa verso lo scrivere è quel campanello, e tu ti fai suonare dal campanello ed è già tutto finito, oltre i confini del ring; del mondo moderno. Ai margini, a smarginare questa s-graziata forma di vita, c'è sempre l'impegno politico, civile, sociale; quanto a dire la speranza che questa copula faccia figli. Ma tu sei ancora single.
Già perché prima ancora, a monte, c'è l'immagine di un lettore, dell'Altro che ritorna ossessivamente in queste scritture corsare, perché sono tutte sofferte per lui. Per ucciderlo, svuotarlo, sadianamente. Trovarlo. Mi chiedo, se tu davvero in questo momento stai leggendo queste righe, sei tu per me quell'Altro? Ovviamente no, se mi parlerai. E non se non mi parlerai rimarrai un fantasma. E' questo il gioco.
Mi pare però a volte che siamo veramente molto soli fra le persone, e che l'Altro sia talmente altrove da sparire del tutto. L'eros non c'ha più voglia, se non ci sono i soldi. Parole come "disintegrazione del tessuto sociale" o "feticismo della merce" vengono scritte, e ci aiutano a dare una misura ai fenomeni. Reificazione dei rapporti come isterismo ben mascherato. Ma la questione è più ampia, forse ancora non chiara nemmeno a sè stessa, da definirsi e solo in seguito magari comprendersi. E scrivere allora può davvero diventare la compenetrazione fra la grazia del suo depensarsi e la battaglia costante per ritagliargli uno spazio sociale, benefico, stimolante - dove sia, una buona volta, ancora, per un po', possibile.

Intanto si chiudono lentamente le porte dell'arsenale, la brezza di un'era va a morire e i riflessi bianchi sulle onde invitano al sonno. Basta poco, vedete? Chè scrivere queste due righe mi ha ripagato d'ogni fatica.

domenica 11 maggio 2014

Io amo la fine del mondo

Già, si parlava di religione. Un balzo in avanti, dunque. Ricordo ancora, una mattinata o forse primo pomeriggio vagamente soleggiato d'una primavera ferocissima: a lezione universitaria, il secondo anno. Non seguivo, ovviamente. Le lezioni sono per me sempre state l'oppio dei popoli, per così dire, e infatti all'università per lo più me ne tenni alla larga (ancora oggi, quando penso di tornare all'università e vado a vedere qualche lezione, mi prende subito un senso come di angoscia, come di solitudine, come di inutilità ineluttabile).
Non seguivo e pensavo a come fermare, sulla pagina degli appunti, la dinamica di colpa che combattevo giorno per giorno, nel tentativo, vano, vanissimo (da fiera delle vanità, proprio) di purificarmi. Purificazione come fuoco: la decisione estrema, continuamente reiterata: cosicché, di fatti, "io amo la fine del mondo".
Ci stavo provando col buddhismo e la meditazione, dopo aver ricevuto l'anno precedente un'introduzione allo yoga e agli scritti di Lao-Tse e altri figuri depensanti. Dovevo chiarire a me stesso il fatto che ancora, dopo tutto, esistevo, fortissimamente, ma all'epoca non sospettavo che di lì in avanti tutto il resto è delirio - cioè che non c'era niente in fondo di più e da più che, una buona volta, dirsi, e amarsi. Caddi nel metafisico come corpo morto cade. Divenni ossessivo. Ma non lo sapevo, e con gli occhi lucidi ero il sadhu di me stesso, presuntuosissimo d'umiltà riflessa (come tutti gli orientalofili inconfessabilmente e forse più sottilmente sempre sono). Così, su quella panca, quel giorno, mi provai a declinare quell'ansia filosofica perennis sul filo aguzzissimo d'un cristianesimo di rigetto - fatto di insicurezza, masochismo e trionfante ansia del sublime.


Io amo la fine del mondo, e chiedo
ogni giorno perdono ai santi all'uomo
all'inferno, perché vedo il mio errore
e non smetto. Troppo forte mi spinge
il dolor ch'ho colto fra voi e ch'ho in petto,
a fiotto, come acqua una fogna in autunno;

mani protese, così mi contagio.

Sempre vedo che sto al modo di straccio
bagnato e balordo, pieno di grinze,
sono per terra, per tutti d'intralcio,
al più balbetto una scusa. E se poi
provo a salvarvi - credendo d'avervi
saggiati, certo v'avrò digeriti... -

le dita son raspe, faccio del male.

E' vero, io amo la fine del mondo,
ché ciò m'insegna la luce ciecante
nella mia cella, se mai vi lampeggia
quando alle volte ferito vi torno
e - umile nella superbia - vi muoio.
Testardo, lì la ricevo immediata;

consola gentile, senza insegnare.


Qui si può ben vedere come già iniziassi a sperimentare con versi tradizionali. Endecasillabo docet! Naturalmente la mia preoccupazione primaria era pur sempre espressiva, e così vicino alla scuola ancora non mi sarebbe mai saltato in mente di mettermi a leggere di poesia in modo serio. Semplicemente, come parte del mio complesso di perfezione, non potevo più permettermi di ignorare "le regole della metrica". Il risultato è uno strano ibrido di forma chiusa (per via della metrica sostanzialmente tradizionale) e di forma aperta (per via del fatto che a mala pena sapevo, per dire, che cosa fosse un sonetto). Di questo verseggiare non ero certo maestro: diverse rotture di verso devono tanto al caso quanto al senso di assillo, di isterica insicurezza, di tensione continua che m'imponevo di trasmettere. Mi piace però menzionare che già allora, in sì compromessa (e forse un po' comica) situazione, ero pronto a coniugare questo tentativo di schiettezza ascetica con l'idea di un sovrasensibile che è in fondo solo felice, ottuso: che non insegna. Per quella via più avanti avrei forse trovato cuniculi sotterranei capaci di portarmi oltre il cerchio delle "montagne della follìa" - quanto a dire il sovrasensibile stesso.

mercoledì 7 maggio 2014

Il desiderio impotente


Il desiderio. L'etimologia tradizionale riconduce a de-sideo, ovvero "sono lontano dalle stelle", quindi mi mancano i loro presagi, o "osservo intensamente le stelle", per trovarne; altri, più banalmente, ci ricordano de-sum, "sono mancante". Qui, più che dire che l'etimologia tradizionale è migliore, dovremmo forse dire che è necessaria. Emerge infatti come prodotto della nostra stessa storia un'emancipazione del desiderio dalle forme basilari della cieca intenzionalità animale - fino a che esso, quale fatto fondamentale di un corpo già sempre anche storico e interpersonale, contribuisce a creare la persona che oggi tu sei qui a leggere. Il desiderio, quindi, si distingue dal bisogno. Il bisogno riconduce alla dipendenza, ad una soggettività meccanica o derelitta (deietta), alla passività; in questo è simile al dolore. Il desiderio al contrario è già un atto razionale, perché comporta il sollevare lo sguardo e cercare in quell'invisibile che è lo spirito stesso. Il Buddha, turbato dall'assillo ossessivo dei bisogni, desidera, nei fatti, liberarsene.

Il desiderio impotente. Come a dire, il suo arresto: l'incontro con la delusione, il fallimento, l'offesa, la maleducazione, la prepotenza, la perdita che montano tutto intorno e mettono in questione la stessa legittimità del soggetto desiderante come cercatore. Come forse in una prossima vita troverò e capirò meglio in Lacan, il desiderio sempre si rivolge all'"Altro";  vale a dire, costitutivamente noialtri ci fissiamo sulle stelle, nel senso di un orizzonte di continua ricerca e rinnovo del venire-al-mondo che, come uomini, solo l'altro essere umano, col suo linguaggio (il Verbo?) ci può accordare. Ma il desiderio diventa impotente quando l'Altro cessa come magnetismo erotico (il Motore Immobile), e ci sorprende, vero monstrum, come limite opaco, duro, non responsivo, che si sottrae al nostro linguaggio. Ecco perchè è l'incontro con l'altro che, orizzonte di ogni desiderio, rappresenta già sempre anche il pericolo estremo del peccatum, dell'αμαρτία (l'errore come scandalo interiore); e quindi: del trauma ("l'inferno sono gli altri"; hedgehog dilemma).

Quando ciò a me accade, ecco che, se non voglio cadere nelle secche della depressione (su cui prima o poi tornerò), ho l'opzione di ricorrere all'utopia. Il desiderio impotente rilancia il nulla sul piatto. Ad esempio, vorrei vivere in un mondo in cui tutti capiscono che la gioia compartecipe è l'unica gioia che si lascia godere senza resto; vorrei vivere in una società fondata sui valori dell'intelligenza, e non quelli dello schiavismo e dell'ipocrisia del sangue; vorrei che la finissimo con l'indifferenza alla nostra stessa vita; vorrei essere amato per quello che sono, non (forse, eventualmente) per quello che faccio; ma vorrei che quell'amore fosse anche libero, invisibile, estatico, non oppressivo, quasi, benianamente, pornografico (amore come lasciarsi dare). Vorrei parlare con gli animali, che sono miei amici, anche se non lo sanno. Allora, in questo dislocarsi vagamente alienato del sub-iectum deietto nella direzione della fabbrica di un inesistente limite contro il limite, ritrovo al tempo stesso una misura di chi sono, di che ci sto a fare - vale a dire: di cosa muove e dà senso al mio proprio desiderare. Come insegna Hegel, l'alienazione è la forma della liberazione del positivo; così, fuoriesco dal chiaro per tastarmi e ricompormi. Ma eventualmente quello stesso utopico, cari amici, dovrà morire.

domenica 4 maggio 2014

Il centro commerciale (autunno 2013)


E la galleria alla sera digrada
lenta verso un opaco
buio e il grigio rugginoso
delle saracinesche - tutto chiuso -
rivela il suo volto.

Gli imbellettati morti
imboccano il viale della notte.
I sorveglianti sbarrano lo zoo,
nel venire a mancare
del vorticar-ossessivo danzare.

"Amami miasma, non mi lasciare!",
sembra dire il vago
volgo restìo,
                          intrucidito e
cacciato così a forza
dal loculo
                          dell'immaginario;
dal necessario.

Indugia,

              indugia pure ma -
vai
via,
              vattene!
                                         Infine, vai!

Il freddo pungiglione decembrino

vertigine lampione
(marcio soccorso)

sei solo, coglione.
Sprofonda in quel
                                         morso

che t'appare
(e nel punto cieco scompare)
crudele ora sul sangue
quant'è la luce sull'ustione.

Anche quello, lo sai?
                                        E' danzare.
(Sempre 'l nume all'uomo è strazio)

Osserva osserva in quel freddo, Orazio
- prima che il foglio vada a strozzare.