domenica 30 marzo 2014

[Il discorso del padrone]

Il rovescio della sexytudine

"Quando si tratta di godimento, si comincia con il solletico e si finisce arsi vivi con la benzina."

J. Lacan, seminario Il rovescio della psicoanalisi

(Perché il desiderio è una faccenda importante.)

Merrily

Kneeling King with Two Angels

Vi stancherò con un breve prologo autobiografico, soltanto affinché sia più chiaro il significato di queste proto-poesie che alternerò nei fine settimana (vedi L'idea generale) alle mie poesie più recenti e compiute.

Lo scenario è l'adolescenza, con tutte le sue tipiche delizie. Il liceo classico, dove l'affanno senza requie delle tempeste psicosessuali non poteva essere nemmeno mitigato da una qualche faciloneria negli studi; gli studi forzati, anacronistici, manualistici - in una parola, insensati e alienanti; la solitudine in mezzo ai propri simili, incapace di accettare la facilità delle loro gerarchie non scritte; infine le tenebre metalliche di una rampante tendenza depressiva e ossessiva - ma dotatasi di un nome solo molto dopo e pertanto tale a posteriori, perché la fenomenologia era quella del puro star di merda; tutto questo mi circondava giorno dopo giorno, mattina dopo mattina, senza una fine immaginabile in vista, e come un'ubriaco passavo dai deliri mattutini di lezioni infinite alle fughe pomeridiane, eteree, in videogiochi o musica furiosa.
A volte rimpiango quei giorni.
Sta di fatto che, verso la metà cronologica della mia picciolinfinita odissea, iniziai, nel corso di quelle mattine di sublime crudeltà, a gettare versi su fogli di quaderno. Erano per lo più grida e mugolii, scavati in un'alchimia emotiva sfuggente a qualsiasi categorizzazione oggettiva; occasionalmente erano anche un buon modo per rinfacciare le mie passioni erotiche alle figure femminili cui i miei folli desideri facevano con grande evidenza un bel baffo. Erano per lo più in inglese, perché, come oggi so, la lingua che parli abitualmente disegna i confini del tuo mondo (e io dovevo pur evadere dal mio mondo per ritrovare la mia perduta voce).
Non si trattava di grande poesia, anzi, nemmeno di poesia media. Quella che segue credo sia, nella sua piccolezza, quella che più la rappresenta.


In spite of daemons

surrounding me

I merrily feel

the Wrath of God

Upon

and still inside


"Introibo ad altare dei", prima battuta dell'Ulysses, detta da un tizio con la roba per farsi la barba in mano: se a quei tempi fossi stato capace di capire un'ironìa così dolce! Invece potevo solo esprimere il folle, confusissimo dolore dell'uomo che si trovi totalmente aperto a quella macchina terribile che è la cosiddetta "storia" (reso in qualche modo dalla forte spezzettatura versale). Facendo questa esperienza, certo, potevo poi evocare l'inaspettata grazia che il limite della sofferenza dona a chi ha il cuore di accettarne il franare - sentendo l'Ira di Dio merrily. Rileggendo i versi però mi colpisce soprattutto il fatto che l'Ira di Dio che pendeva "Sulla" mia testa sia, senza parere, anche la stessa che mi ribolliva dentro - mercé quello still così vago, al limite dello sgrammaticato, che istituisce una reversibilità fra Dio e uomo che ancora non sapevo mi avrebbe creato tanti problemi. Senza che lo sapessi, in effetti, forse questa poesia parlava già di cosa significa perdere la propria umiltà, fino a non avere nessun dubbio che parole come "grazia" e "Dio" abbiano un significato assoluto.
Certo, questa poesia parla di tutto ciò poco e male - perché allora non sapevo proprio un tubo - ma spero che valga, nel suo piccolo,  a buon pro di quanti ancora, malgrado tutto, vogliono che in arte la tecnica sia sposa, e non idolo, dello spirito.

venerdì 28 marzo 2014

[Oracolo d'aprile]

Oracolite

Tutti i misteri si eclissano, fuggono, si nascondono nell'uomo - fino all'eternità, cioè il tempo. E' perciò buono tornar sempre a dipanarsi nelle dimensioni a noi concesse (a mo' di poesie, o di gomitoli d'Arianna), fino eventualmente a crearne di nuove - fino a che l'incomprensibile non ricominci a comparire all'orizzonte, donandoci il saluto della ragione.

giovedì 27 marzo 2014

[Introduzione al concetto di colpa]


«Ma io non sono colpevole,» disse K., «è un errore. E poi, in generale, come può un uomo essere colpevole? Siamo pur tutti uomini qui, gli uni quanto gli altri.» «È giusto» disse il sacerdote, «ma è proprio così che parlano i colpevoli.1»

F. Kafka, Il processo

1Corsivo mio.


mercoledì 26 marzo 2014

Prospettive storico-psichiatrico-teoretiche sul buon caffè invernale (parte I)

"Bar" è un termine di etimologia incerta. Unanimemente riferito all'inglese rinascimentale, per alcuni sembra riferirsi alla "sbarra" (bar) a cui ci si appoggiava fin da allora per prendere qualcosa da bere, per altri si riferisce alla sbarra che in America Latina separava il bancone alcolici dal resto del bar, mentre per altri ancora sembra riferirsi alle sbarre sopra il simbolo degli alcolici nel periodo in cui in Inghilterra era proibito il loro uso. Poco male: io sono, per varie ragioni, astemio. Per me il bar è principalmente luogo del caffè, specialmente in inverno, quando la sosta fumosa fra le luci incerte delle strade presso il bancone familiare significa tanto momento di riposo quanto energetica e scaramantica consumazione d'un amaro intruglio nero.
Riflettevo nei giorni scorsi su quale potesse essere l'argomento del primo pensiero di questo blog; ero al bar e stavo prendendo il caffè. Familiare, il barista mi veniva in soccorso con sollecitudine, e, doverosamente ringraziato, mi regalava l'usuale piccolo cameo di relazione sociale ancora vagamente genuina. Ed ecco che ho pensato: inizierò con umiltà (aderenza all'humus, alla terra di noialtri); inizierò proprio da ciò che provo e penso in questo momento, così apparentemente banale, eppure così ricco di spunti riguardanti il senso della nostra vita. Qui ne menzionerò un paio.

Primo: la relazione fra la mia gioia baristica, il capitalismo, la psichiatrìa e l'eros.
Vado al bar a prendere il caffè piuttosto spesso da poco meno di tre anni; prima lo facevo molto raramente. Ho iniziato perché, quasi per caso, ho scoperto come d'inverno, quando la tendenza ad una certa depressione clinica si fa in me piuttosto netta, la bevanda in esame avesse il potere di regalarmi un certo sollievo umorale. Ho continuato perché, pian piano, il piacere di spendere qualche moneta di propria proprietà per regalarsi un certo sollievo e un momento di riposo ha acquisito per me un valore di intimo soddisfacimento personale. Sorge quindi la domanda: quanto c'è di masturbatorio in questi nostri piccoli piaceri economici?
Potrebbe sembrare una domanda oziosa, per non dire essa stessa masturbatoria, se non fosse che uno sfondo di pensieri la prepara: in primis la questione ancora non completamente esplorata del rapporto fra eros e capitalismo. Si sa che, da Marx in poi (vado per relata, non ho ancora avuto modo di leggerlo), il capitalismo si regge sulla creazione di valore tramite lo sfruttamento del lavoro salariato allo scopo di vendere merci ai medesimi lavoratori ad un prezzo creato ad hoc e far così lievitare il capitale. E' il prodromo al cosiddetto "feticismo della merce" - quello che noi oggi frettolosamente etichettiamo come consumismo. La domanda che ponevo poc'anzi, se generalizzata, si potrebbe forse porre in questi altri termini: quanto di questo feticismo e del consumismo su cui si regge la nostra (morente) forma di vita si fondano sul bisogno di compensare un paralizzante deficit affettivo - e quindi anche erotico - che poi forse, tramite ulteriori indagini, potremmo scoprire essere causato dalla medesima forma di vita borghese inauguratasi con la fine delle società religiose tradizionali? Questo per me è un argomento molto attuale, su cui ho già scritto qualcosina e su cui, se il dio vorrà, in futuro cercherò di scrivere ancora. E' bastato un caffè, con il suo timido piacere, a richiamare tutto il treno fino alla mia consapevolezza.
E, parlando di consapevolezza, vorrei aggiungere una piccola appendice: qual è il ruolo della costituzione neurologico-psichiatrica dell'uomo in questi fenomeni? Si potrebbe ad esempio sostenere che all'origine della mia abitudine caffeistica ci sarebbe semplicemente il suo piacevole effetto serotoninergico (o qualcosa del genere), a compensazione dei miei squilibri umorali, che poi per effetto pavloviano ingloberebbe l'intero complesso di azioni connesso alla bevanda. Ma, e qui sta il punto, come può questo punto di vista scientifico (e forse già scientistico) interagire con le precedenti osservazioni, che di fatto instaurano una dialettica di senso a mo' di ponte fra la bevanda e il complesso dei miei usi intorno ad essa? E, di nuovo generalizzando: quanto del disturbo psicologico si innesta su un retroterra psichiatrico, e quanto di quel retroterra psichiatrico - a sua volta - si innesta forse su fenomeni socio-culturali spesso misconosciuti e così ampi da risultarci invisibili? Avendo molto a che fare con la psichiatrìa, ho la netta sensazione che in questo campo si dovrebbe fare di più.

Il che, in qualche modo, mi introdurrà alla seconda parte.

Ho aperto un blog

... questo fatto, apparentemente del tutto insignificante, senza dubbio contribuirà nel tempo a cambiare la vita di qualcuno (o forse no).
Se, capitato qui per caso, subitaneamente ti chiedessi chi sono, cosa posterò, quando lo farò, come e perché, non avrai che da cliccare sulle schede in alto per avere alcune interessanti risposte.
Che altro? Non resta che dare il benvenuto a questa nuova forma di me qui scrivente, nonché a quanti viaggiatori, in sì complessi tempi, approdino, forse alla ricerca di qualcosa, a sì semplice rifugio.

Buona vita!