"Bar" è un termine di etimologia incerta. Unanimemente riferito
all'inglese rinascimentale, per alcuni sembra riferirsi alla "sbarra" (
bar)
a cui ci si appoggiava fin da allora per prendere qualcosa da bere, per
altri si riferisce alla sbarra che in America Latina separava il
bancone alcolici dal resto del bar, mentre per altri ancora sembra
riferirsi alle sbarre sopra il simbolo degli alcolici nel periodo in cui
in Inghilterra era proibito il loro uso. Poco male: io sono, per varie
ragioni, astemio. Per me il bar è principalmente luogo del caffè,
specialmente in inverno, quando la sosta fumosa fra le luci incerte
delle strade presso il bancone familiare significa tanto momento di
riposo quanto energetica e scaramantica consumazione d'un amaro
intruglio nero.
Riflettevo nei giorni scorsi su quale potesse
essere l'argomento del primo pensiero di questo blog; ero al bar e stavo
prendendo il caffè. Familiare, il barista mi veniva in soccorso con
sollecitudine, e, doverosamente ringraziato, mi regalava l'usuale
piccolo cameo di relazione sociale ancora vagamente genuina. Ed ecco che
ho pensato: inizierò con umiltà (aderenza all'
humus, alla terra
di noialtri); inizierò proprio da ciò che provo e penso in questo
momento, così apparentemente banale, eppure così ricco di spunti
riguardanti il senso della nostra vita. Qui ne menzionerò un paio.
Primo: la relazione fra la mia gioia baristica, il capitalismo, la psichiatrìa e l'eros.
Vado al bar a prendere il caffè piuttosto spesso da poco meno di tre anni; prima
lo facevo molto raramente. Ho iniziato perché, quasi per caso, ho
scoperto come d'inverno, quando la tendenza ad una certa depressione
clinica si fa in me piuttosto netta, la bevanda in esame avesse il
potere di regalarmi un certo sollievo umorale. Ho continuato perché,
pian piano, il piacere di spendere qualche moneta di propria proprietà
per regalarsi un certo sollievo e un momento di riposo ha acquisito per
me un valore di intimo soddisfacimento personale. Sorge quindi la
domanda: quanto c'è di
masturbatorio in questi nostri piccoli piaceri economici?
Potrebbe
sembrare una domanda oziosa, per non dire essa stessa masturbatoria, se
non fosse che uno sfondo di pensieri la prepara: in primis la questione
ancora non completamente esplorata del rapporto fra eros e capitalismo.
Si sa che, da Marx in poi (vado per
relata, non ho ancora avuto
modo di leggerlo), il capitalismo si regge sulla creazione di valore
tramite lo sfruttamento del lavoro salariato allo scopo di vendere merci
ai medesimi lavoratori ad un prezzo creato
ad hoc e far così
lievitare il capitale. E' il prodromo al cosiddetto "feticismo della
merce" - quello che noi oggi frettolosamente etichettiamo come
consumismo.
La domanda che ponevo poc'anzi, se generalizzata, si potrebbe forse
porre in questi altri termini: quanto di questo feticismo e del
consumismo su cui si regge la nostra (morente) forma di vita si fondano
sul bisogno di compensare un paralizzante deficit affettivo - e quindi
anche erotico - che poi forse, tramite ulteriori indagini, potremmo
scoprire essere causato dalla medesima forma di vita borghese
inauguratasi con la fine delle società religiose tradizionali? Questo
per me è un argomento molto attuale, su cui ho già scritto qualcosina e
su cui, se il dio vorrà, in futuro cercherò di scrivere ancora. E'
bastato un caffè, con il suo timido piacere, a richiamare tutto il treno
fino alla mia consapevolezza.
E, parlando di consapevolezza,
vorrei aggiungere una piccola appendice: qual è il ruolo della
costituzione neurologico-psichiatrica dell'uomo in questi fenomeni? Si
potrebbe ad esempio sostenere che all'origine della mia abitudine
caffeistica ci sarebbe semplicemente il suo piacevole effetto
serotoninergico (o qualcosa del genere), a compensazione dei miei
squilibri umorali, che poi per effetto pavloviano ingloberebbe l'intero
complesso di azioni connesso alla bevanda. Ma, e qui sta il punto, come
può questo punto di vista scientifico (e forse già scientistico)
interagire con le precedenti osservazioni, che di fatto instaurano una
dialettica
di senso a mo' di ponte fra la bevanda e il complesso
dei miei usi intorno ad essa? E, di nuovo generalizzando: quanto del
disturbo psicologico si innesta su un retroterra psichiatrico, e quanto
di quel retroterra psichiatrico - a sua volta - si innesta forse su
fenomeni socio-culturali spesso misconosciuti e così ampi da risultarci
invisibili? Avendo molto a che fare con la psichiatrìa, ho la netta
sensazione che in questo campo si dovrebbe fare di più.
Il che, in qualche modo, mi introdurrà alla seconda parte.