sabato 28 giugno 2014

La sosta (festa del primo maggio) (primavera 2014)

Viale dei Colli si snoda geometrico.
Ma come sono...
La vita umana è agghiacciante.
Ricchezza dello spirito. La mente.
Rallenta.
Mi fermo? Il tempo è la forma del...
Il pensiero è, la forma è,
del sè stesso, o era...
Via mi fermo. Poi
mangio, meglio qui.
Il sudore addosso, esausto
degli amici laureati
d'altri, sessualizzati,
vitrei: la festa di oggi. Mi fermo
nel vento cavo della vetta,
a San Miniato al Monte,
a camionate i turisti sul piazzale,
come la vertigine d'Abelardo
- prima e dopo -
si squadernò sola
nella follìa di Notre-Dame.
Lui, lei, lui, lei, lei,
occhi da orientale
"che nascondono emozioni e
sguardo limpido d'aprile",
a scanner,
darkly, in the grotto,
to incubize a Delfo fiorentina
- vitrei;
ove poi esplode una stella danzante,
del caos primordiale,
e mi ci calassi, magari,
stark raving mad, contento
di questi accordi lunari
(io monitor neon ragazzino),
che sulla scalinata risonan,
a tanta parte della città;
guardala: lì,
che s'apre ben bene, rotonda,
primordiale, dal passato che è,
al futuro che sarà stato... o
com'è che era? Si protendeva?...
Ma che vento, veramente, ora mi porta via, via,
- ma che freschino -
e chissà, eh, se dopo lo scriverò,
(un bar)
con la paratassi d'Ezra e Adorno,
o senza,
wrought, la foudre, Byron,
classico ottocento.
O mai.
Solo,
con la folla che brusìa cocciuta,
sbrodolante sulle note, sento...
un'emozione - buono via -
forse.
Santo vuol dir separato;
colare, così, a picco, lento.
Pago.

Come sono solo. Che ore sono?
Verso le otto, mangiato un panino,
ho speso qualcosa alle porte della notte.
La macchina, sopra, dai frati,
via via andiamo: farò
a casa, giù,
là sotto.

mercoledì 25 giugno 2014

Cenni di orientamento nel casino che è la cultura (parte II)

La disciplina del guado

Benvenuti nella cultura in senso proprio. Ho la sensazione che non molti arrivino da queste parti, professori compresi. Qui lo scenario si complica: infatti qui cultura significa esigenza di coltivazione di sè mediante il forgiarsi di una strada nel caos, o anche l'inverso, che è la stessa cosa. E' essenziale che ci si renda conto che questo tipo di perdizione fa parte integrante del processo, e anzi nel corso del tempo ne diventerà la parte più interessante. Lo so, all'inizio il tutto era nato per l'esigenza di una "risposta", di una "soluzione", di un "interesse" specifico, che si presumeva avesse una fine. Ma quella era l'esca necessaria perché tu uscissi dal tuo guscio. Ora, invece, sei fra i grandi.
Traccerò anche qui tre consigli di base - in questo caso, però, non tanto in un ordine più o meno cronologico, ma semmai in un ordine di priorità logica: vale a dire, poiché i procedimenti che si metteranno in atto in questa fase sono più psicologici che materiali - non lineari e scarsamente algoritmizzabili - quelle che darò sono delle vaghe linee guida su dei principi fondamentali che potrebbero anche susseguirsi cronologicamente, ma che più in generale varrà semplicemente la pena di tenere presenti in quell'ordine di priorità. Va da sè che, in questa fase ancora più che nella precedente, ogni pretesa di completezza è volata fuori dalla finestra.

- Primo: rinunciare alla conoscenza. Questo passo è già piuttosto difficile, ma al tempo stesso è cruciale. Molte persone, giunte da queste parti, tendono naturalmente a cercare opinioni "forti" tramite cui assicurare la propria illusoria identità ad un'ipoteca di sicurezza (la cui verità ovviamente è la schiavitù). Che sia esoterismo, politica o l'ultima moda in tema di filosofia della mente - tutto pur di non prendere atto dell'infinito. Solitamente - e parlo anche per esperienza personale - questo tipo di reazione va a infilarsi in orrendi cul de sac fatti di enormi difficoltà psicologiche stirate fin quasi al punto di rottura. Guardati dagli eccessi della "coerenza". Al contrario, il processo che a noi qui interessa è un po' diverso: di nuovo, rinunciare alla conoscenza. Questo significa che si deve perdere ad un certo grado la fiducia che finora si era riposta in ciò che si stava studiando e apprendendo, e così facendo si deve accettare di perdere il potere (del tutto immaginario) che si pensava ad esso connesso. L'oggetto inafferrabile del desiderio (sì, di nuovo il vecchio primo punto), da vicino che sembrava, di colpo si fa completamente inafferrabile. E' un colpo basso, ma lo devi buttare giù. Avrai la sensazione di aver studiato e penato per niente, ma lo devi buttare giù. Quando avrai cominciato a dimenticare i dettagli o i libri o le nozioni imparate a memoria, avrai la sensazione di essere al punto di partenza (non è vero niente): butta giù. Il momento della confusione totale e del senso di essere completamente ignorante di tutto è il battesimo del fuoco di cui hai bisogno.

- Secondo: accorgersi della vita. Quasi inevitabilmente il passaggio alla sfera dell'infinito e la crisi della conoscenza come acquisizione cumulativa di controllo che esso comporta ingenereranno l'insorgere, all'interno di una sfera dell'io completamente investita nel "progetto cultura" - qualunque fosse la ragione originaria per investirvisi - ampie difficoltà psicologiche. In altre parole, questo è il momento in cui la vita inconscia, che, tramite il primo punto della prima fase, stava in effetti, non vista, alla base dell'avvio dell'intero processo, si riavvicina e quasi collide con la vita conscia, sfasciando le strutture di supporto del soggetto (che ancora non si comprende come impossibile e sempre da farsi). Questa fase è senza dubbio la più critica e dolorosa del processo. Può, in effetti, benissimo comportare il ricorso a psicoterapeuti e/o psichiatri vari. Il mio consiglio in merito è di non esagerare: si deve cioè comprendere che il loro ruolo può essere solo di coadiuvanti ad un riadattamento alla vita quotidiana; essi non possono risolvere il problema della "cultura" per te. Ma proprio l'incontro-scontro con la vita quotidiana deve diventare ora il tema centrale del processo. Quasi come se tutto quanto si fosse fatto finora fosse in effetti solo un elaborato trabocchetto per ricondurti a te stesso (non lo è, ma sembrerà così), la conseguenza primaria del reiterato rinunciare alla conoscenza, dell'alzare le mani e arrendersi, dello scoprirsi poveri, i più poveri, deve riportare violentemente il fuoco dell'attenzione proprio su ciò che nei mesi/anni/decenni precedenti era rimasto apparentemente sullo sfondo, negletto in quanto (si pensava) già superato: appunto, la vita quotidiana. La vita, viene da dire, "reale", di fronte a quelle che ora appaiono le "illusioni" della incontrollabile proliferazione dei punti di vista. Potrà sembrare, così facendo, di sigillare una definitiva rinuncia alla "cultura"; e sarà quasi così. Ma c'è un piccolo particolare di cui solo più tardi ci si ricorderà: tutti i problemi psicologici che ora stanno come diaframma fra te e la vita "normale" sono, in effetti, nient'altro che la raffinazione del tuo primo movente ad intraprendere la ricerca culturale stessa. Essi sono, a tutti gli effetti, il prodotto della tua ricerca, finalmente defunti dalla dimensione dell'astratto e nozionistico e in procinto di incarnarsi nella tua vita. A prenderli come la vera e propria tesi di laurea che ti aspetta, non ci si sbaglierebbe troppo, e questo anche se finora pensavi che si trattasse solo di studiare la storia della musica o l'etnologia dei nativi di Bali.

- Terzo: passare alla creatività. A questo punto, cioè, il compito, per quanto difficile e a volte doloroso, è segnato: si tratta di riuscire a far combaciare la dimensione patologica inaugurata dal disadattamento costitutivo frutto del passaggio alla sfera dell'infinito culturale con la propria vita concreta - fino, nel caso tu sia un genio e/o un po' folle, a non avere più quotidiano. A riguardo nutro la personale idea che ogni mezzo debba essere considerato lecito. Vale a dire che - fatto salvo un utilitaristico rispetto delle leggi e il massimo possibile di rispetto per gli altri, che dopo tutto stanno affrontando a loro volta un'odissea simile - è necessario in questa fase lasciare un po' fra parentesi le tentazioni di chiudersi a riccio intorno ad un'etica prestabilita o, Dio ce ne scampi, addirittura ad un qualche moralismo. Si tratta, in effetti, della stessa tentazione a livello pratico che trovavamo a livello teorico al primo punto. Lascia stare, non fuziona: se segui quella strada peggiorerai e non caverai un ragno dal buco. Il fatto è che in questa fase, costitutivamente, dovrai renderti conto che l'infinito sconvolgente a livello teorico-culturale riguarda per l'appunto e già fin dall'inizio la stessa dimensione pratica della vita. Di modo che l'abitudine, le leggi, le etiche dovranno, in questo processo di adattamento selvaggio al disadattamento costitutivo, rivelarsi per quello che sono: ausilii e sostegni, non regole assolute atte a censurare il pensiero. Detto in altre parole: si tratterà di scoprire che in etica si ragiona sempre "a posteriori" - un po' come per la filosofia secondo Hegel. O, il che è simile, si tratterà di scoprire che l'etica - guarda caso, proprio come la cultura - è un cantiere aperto, mai finito, sempre in costruzione. Credo che questa assunzione su di sè dell'infinito (in cui, non si dimentichi, "è dolce il naufragar") sia la capacità che più di tutte permette di inserirsi nella vita culturale dell'umanità. Di qui in avanti si stende la prateria accidentata e fascinosa della produzione del senso, quanto a dire ciò che sporge dal rapporto fra tu-persona e tu come soggetto di enunciazioni sempre da superare. Ed ora vedrai che tutto ciò che avevi studiato tempo addietro, unitamente a quanto ancora come un bambino studierai, ritornerà non più come albatross del controllo a chinarti la testa, ma semmai capacità di spiccare il volo dell'albatross che tu sei, reggendoti proprio sulle correnti del senso secreto dai voli di chi ti ha preceduto. Con un'avvertenza: guardati bene dal credere che, per l'appunto, si tratti di un processo finito ed esauribile, in cui si possa trovare una qualche perfezione. Se vogliamo il segreto finale è proprio questo: che ci saranno sempre difficoltà psicologiche, sempre qualche incoerenza fra teoria e prassi, sempre qualcosa da pensare o da fare. Ma per l'appunto ciò, se finalmente riesci a mandarlo giù, è l'ultimo boccone degli spinaci atti a rendere il tuo corpo, finalmente, relativamente, ma sacrosantamente creativo. Benvenuto a casa.

domenica 22 giugno 2014

Hysteria-Processor


Il tema della follìa fu caro alla mia adolescenza anche perché ricordo vagamente come quello fu il nome che detti al corso di pensiero che, avendo bisogno di una scusa per sentirmi libero, imboccai sotto l'egida del "non avere paura della morte". Era infatti una sorta di enigma e di sfinge quello per il quale, stando da cani, ero uso a numerose fantasie suicide, ma subito il senso di colpa, il terrore e lo sgomento bloccavano anche quelle. Il figlio dell'uomo non aveva davvero dove sbattere la testa, e fu per l'appunto il pensiero della "follìa" quello che forse per primo mi aprì la sfera della creatività e di un pensiero vagamente sensato. Non avere paura della morte - il pensiero folle - era infatti per me anche e surrettiziamente non avere paura della follìa stessa, lasciando così che il mio inconscio dicesse (o strepitasse, l'istericone) quello che aveva da dire. Su questa falsariga - e sulla mia incipiente sindrome ossessiva compulsiva e/o disformismo psicologico - nascevano poesie come questa.


My Skin

Dry

Sharp Paper

Itching

Through my Sores

Entirely.


Non dirò molto altro. Penso, tutto sommato, che queste piccole illuminazioni epigrafiche siano le poesie più riuscite di quel mio periodo. Nascevano tutte insieme, come un lampo - lampo che a volte ancora io dilaziono su versi e giri più ampi, ipnotico - e come un lampo si inabissavano nel "già scritto", senza che nemmeno io potessi comprendere fino in fondo il perché di quelle parole. Qui in particolare potremmo dire del senso di deformazione del corpo - eternato dall'affastellamento di maiuscole e dalla spezzettatura versale - che disperatamente avevo bisogno di lamentare, non avendone parole; o potrei parlare della carta stessa della scrittura, che si faceva terribilmente sharp proprio per penetrare, timidamente, laddove la mia ragione non arrivava. Potrei forse cercare di fare un'analisi di come la ricorsività domini - ma senza metalinguaggio! - questo autoriferimento sfaldantesi nella oniricità di un grido. Ma non lo farò, se già non l'ho fatto. Poesie come questa, bella o brutta che sia, rimangono per me come icone, di cui altri, ma non io, potrebbero occuparsi.

mercoledì 18 giugno 2014

Cenni di orientamento nel casino che è la cultura* (parte I)

*scritto da un tizio qualsiasi di cui non necessariamente fidarsi - quanto a dire un messaggio dall'universo stesso.

Introduzione.

L'idea è semplice: mi sono reso conto, parlando con le persone, a più riprese, nel corso degli anni, che quasi nessuno ha veramente una vaga idea di quanto vasto, complesso e insidioso sia il mondo della cultura umana. Affine alla frana di un infinito su di un altro, esso è forse il principale attentato alla salute mentale del tranquillo ancora biologico homo sapiens - finché, appunto, non si picca di capirci qualcosa sul senso della vita e, invece di chiudere il becco e andare a fare ricerca scientifica su argomenti che non gli interessano, si sforza di acquisire un certo dominio su qualche campo della storia espressiva umana: dalla letteratura alla filosofia, passando per tutto il resto.
Ah, dominio, che brutta parola. Già indica un fattaccio. Il dominio sull'infinito è infatti forse la forma di uno dei problemi caratterizzanti la modernità: confondere l'impossibile con un'esigenza biologica. Le istituzioni lo risolvono "fuorcludendo" (per dirlo in modo brutto e lacaniano) il soggetto: ecco l'università - dove appunto puoi studiare solo ciò che non ti interessa in un modo deciso da altri (sulla base del fatto che non gli interessa). Ma cosa accade se invece tu degli interessi - dei desideri - ce li hai?
In breve, ho deciso di realizzare questa piccola mini-guida, interamente e non scientificamente basata sulla quantità assurda di mie esperienze sottoscritte, a uso e consumo di chi stia pensando che tutto sommato questa cosa della cultura è carina e divertente (lo è, ma solo dopo essere stata atroce e fottuta), o che magari si sia già perso nei suoi meandri e attualmente si sfoghi solo con fantasie di suicidio (ma è meglio se evitate di farlo, persino Artaud persa per persa ha preferito impazzire).

Condizioni necessarie e quasi sufficienti.

In questa prima parte elencherò, senza nessuna pretesa di esaurienza, tre condizioni, più o meno in ordine di importanza cronologico, che a mio avviso regolano l'accesso stesso alla dimensione della cultura vera e propria (cioè cultura come coltivare, all'opposto di colonizzazione da parte di altri). Perché - premessa essenziale - avere in testa delle nozioni non è cultura: se così fosse chiunque passi l'esame di maturità sarebbe automaticamente un illuminista, un avanguardista o un poeta romantico. In effetti, il lavoro della cultura "vera e propria" è semmai proprio quello di masticare e macinare le nozioni - alla luce dell'esperienza, di altre nozioni, del linguaggio, della vita o anche di Gesù Bambino - in modo da spremerne in qualsivoglia spregiudicato modo un senso impiegabile nella vita propria e/o altrui. Senso che cambia, senso che defunge sempre (cosa a cui mi sembra il solito Lacan alludesse con la formula per la quale il Reale "non cessa di non scriversi"), ma che al tempo stesso da bravo carota di fronte all'asino funge da motore della storia nostra e altrui - fino magari a improbabili felicità, o alla peggio a essere capolavori.
Torneremo forse altrove e in altre vite su tutte queste questioni. Qui mi premeva elencare tre condizioni per cominciare anche solo a giocare a questo gioco.

Primo: iniziare lo studio di una qualsivoglia area della cultura non per motivazioni estrinseche o utilitaristiche; se possibile, persino non per motivazioni patologiche. In altre parole, il movente del tuo viaggio dev'essere già una forma in qualche modo depurata di desiderio. A mio modestissimo modo di vedere è impossibile capirci anche solo qualcosina nelle cose della vita (perché di questo con la cultura si tratta) se si inizia a studiarle per avere un cospicuo stipendio o per far felici mamma e papà. La ragione è semplice: gran parte del lavoro che ti attende non è accumulativo o direttamente costruttivo, ma negativo e controintuitivo. Se non sei mosso da un'esigenza autentica, non vorrai nemmeno iniziare e finirai a fare l'insegnante fascista alla scuola superiore.

Secondo: avendo a che fare con un'autorità che svolga la funzione in qualche modo di "maestro" (dal maestro di teatro al professore universitario - ma anche l'autore del libro che inevitabilmente leggerai!), sobbarcarsi il compito di mantenervi una relazione problematica. Questo essenzialmente significa non prendere per oro colato qualsiasi cosa egli dica, ma anzi tenere nella massima considerazione le tue esigenze (ricordate quelle del punto precedente?) e qualsiasi dubbio / obiezione / apostasi esse inspirino rispetto al "Discorso del Maestro". Non però ciò si deve tradurre in una semplice negatività o distruttività di un sospetto fine a sè stesso; non si tratta, cioè, di porre i problemi sul piano di una supposta relazione di potere. Al contrario, i problemi e le questioni devono tutte porsi sullo stesso piano della fonte di autorità del maestro: in pratica, si deve essere capaci al tempo stesso di apprendere da lui e di vagliare criticamente qualsiasi cosa egli dica come se si fosse già, in un certo senso, degli esperti del campo. Avvertenza: essendo questa mia richiesta, in senso assoluto, paradossale, va da sè che in questa fase si faranno inevitabilmente errori di giudizio e di percorso. Ma la cosa non fa problema, perché tanto invariabilmente si passerà a

Terzo: avere la forza e la lucidità di riconoscere che il maestro di turno - anche quello magari prediletto, giudicando a pelle - ha invariabilmente dei limiti. Tipicamente ciò si mostra in una certa rigidità in certi aspetti delle sue vedute, che mal si incastreranno con le proprie personali esigenze (sì, di nuovo il primo punto). Ma potrebbe essere di tutto; ciò che importa è che come conseguenza di questa inevitabile constatazione, si va in cerca di altri maestri che possano illuminare sui punti critici. Ma - e qui sta il busillis - inevitabilmente si dovrà essere capaci di rendersi conto che anche gli altri maestri hanno dei punti deboli. Si dovrà cioè rendersi conto che nessuno possiede La Dottrina (La Verità, Il Senso, ecc.); e si dovrà rendersene conto per davvero, completamente, e proprio su qualcosa che nel frattempo per te è diventato molto importante. La scoperta da fare è che i maestri non sono maestri - per definizione. Questo punto è a mio avviso cruciale, perché è proprio tramite il trovare il modo di superare la crisi che esso apre che si entra nel mondo della cultura vera e propria. Vale a dire: dell'infinito. L'infinito delle opinioni contrapposte, delle vedute incommensurabili, delle storie di storie di storie che si relativizzano a vicenda, del "non c'è una soluzione!". L'infinito, in pratica, della verità (umana (disumana)).

sabato 14 giugno 2014

mercoledì 11 giugno 2014

La deiezione come cifra nazionale (parte II)


Suffragio come sado-masochismo

Riflettendo giorni fa sull'ubiquità della figura fecale nel turpiloquio nostrano, mi è venuto spontaneo collegarla ad un'altra riflessione che avevo fatto in precedenza: l'idea che il popolo italiano, prima ancora che per la "disonestà" o per la "furbizia" (luoghi comuni non privi di fondamento), si caratterizzerebbe per un profondo e sotterraneo masochismo. Infatti, ricordandomi le osservazioni di Freud, mi è parso abbastanza notevole che lo psichiatra austriaco parlasse della genesi del sadismo e del masochismo proprio nella cosiddetta "fase anale" - cioè la fase in cui il bambino scopre per la prima volta al tempo stesso le feci come oggetto interno-esterno e i rapporti di potere-dominio. L'ipotesi intepretativa che allora mi è venuta spontanea sarebbe la seguente: il popolo italiano - inteso come massa che agisca in modo irriflesso e/o ideologico - si caratterizzerebbe per una ricorrente tendenza a volersi affidare a "uomini forti al comando" non per semplice "ingenuità", ma sapendo in realtà già in anticipo che il soggetto di volta in volta prescelto non è adatto a tale ruolo e anzi è già predisposto a usarlo a danno della collettività. Il fascismo sarebbe la cifra modello di questo processo, e solo e specificamente in questo lo si dovrebbe distinguere dal nazismo, che invece nasce immediatamente totalitario e rivolto verso il nemico Altro che totalizzi il desiderio impossibile (nella fattispecie l"ebreo"). L'idea è quindi che l'italiano sarebbe in qualche modo condizionato a concepire il potere come strettamente legato alla merda, cioè al piacere del dominio spietato e senza resto che verrebbe esercitato da un simulacro del "padre" - per il tuo bene. Il sintomo qui sarebbe proprio la diffusione eccezionale di questa specifica metafora oscena.

In questa ottica si potrebbe quasi arrivare a dire che il fatto che i politici rubino sarebbe più un qualcosa che essi farebbero per dimostrare a sè stessi che hanno una qualche possibilità di agire come individui, invece che come oggetti del piacere perverso altrui ("governare gli italiani non è impossibile, è inutile"). In questa ottica si potrebbe anche spiegare l'emergere attuale del turpiloquio sulla scena pubblica come un sintomo che ci stiamo avvicinando ad un emergere più in chiaro di questi fenomeni. Infine, forse, in questa ottica si dovrebbe leggere il rapporto secolare e del tutto speciale del popolo italiano con la Chiesa e, in particolare, col Vaticano (il che aprirebbe l'ampio capitolo "cattolicesimo e masochismo").

Sono solo spunti, come del resto l'idea in generale. Ma penso che sia importante farla finita con l'idea che le assurdità politiche nostrane siano solo segno che "gli altri" in genere siano "stupidi" e/o "stronzi" (appunto), perché questo modo di pensare inevitabilmente favorisce ulteriormente l'atomizzazione, condannando proprio le persone che potrebbero differenziarsi ad auto-esiliarsi in immaginarie torri d'avorio. Perché il "nemico della patria" non è mai il dittatore di turno, ma le condizioni sociologiche, storiche e psicologiche che lo hanno messo in quel posto.

domenica 8 giugno 2014

Of Silent Hills and Inner Pain


La definizione di uno statuto totalmente soggettivo della follìa - della follìa come di qualcosa non di estraneo, ma di assolutamente interno - è un qualcosa su cui inevitabilmente tornerò sempre. La ragione è semplice: la mia adolescenza è stata caratterizzata, più che da qualsiasi altra cosa, da un rapporto strettissimo (e straziante) con la sragione, l'insensato e l'inaccettabile. Sono molto affezionato a questa poesia, perché ritengo sia una di quelle che con più forza - seppure in modo totalmente mitologico - espresse per me (in me (per mezzo di me)) questa lancinante consapevolezza di un conflitto insanabile nel cuore della mia stessa persona. Conflitto per il quale io ero innocente ma non riuscivo a essere una persona felice e normale, ragion per cui mi rovesciavo in colpevole, ma proprio il mio essere colpevole era cagione legittima del mio odiare gli altri, perché era un'ulteriore sofferenza immeritata... e così via. Come nella poesia stessa, anche a posteriori è difficile separare quanto competeva all'organico, quanto al sociale e quanto, forse ma forse, allo spirituale.


"Why don't you tell us something about you, then?", asked respectfully No One. Lo, as you wish, they replied.

So the Daemon went on scratching
Excavating flesh, splattered blood
Everywhere it searched for the reason
Inside the body of its host.

But the bloody gore it handled
It spoke of nothing
And the rotten blood it tasted
It tasted of nothing.

The brain was inflated, scorched
Yelling through electrical discharges
Groaning of mysterious reactions
It would be a Renaissance to tear it.

But so much loneliness
It was folly
And so much beautiful bliss
It went away.

The Demon began to understand
And slowly yet painfully went insane
Becoming one with its host
An archaic structure of pain and blood.

So everything still was there
So much pain
To have two spirits bound to you
Starving inside.

"To writhe in a deep organ-knot shall be the first step", commented the Lady. And then there was silence.


Ricordo che anni fa, quando pubblicai questa poesia su un sito, qualcuno nei commenti mi mise in guardia: questa rappresentazione della follìa è un po' troppo buona. Penso che una simile impressione, oltre e più che per via delle immagini impiegate, fosse dovuta a tutta una serie di dispositivi retorici più o meno involontari che, infatti, malgrado si discostino magari dal mio presente modo di scrivere, nel riportare la poesia ho cercato di conservare. Mi riferisco in particolare alla maiuscola fissa a inizio verso, che fa da pendant ad una sintassi spezzata, in cui quasi ogni verso "resetta" la logica del discorso, come in uno stream of consciousness schizofrenico; e, forse, anche alla struttura narrativa che si situa decisamente fuori dal tempo, ma in modo sanguigno e granguignolesco. Al tempo stesso, questa medesima storia si può leggere anche in chiave dialettica: cosa abbiamo qui infatti se non il Daimon che cerca sè stesso nel corpo immaginario del soggetto, e che alla fine riconosce la propria stessa impossibilità, condannando il soggetto ad una deiezione permanente? Ma se è così non saremmo forse qui in una sorta di sospeso ed eterno istante precedente l'accesso alla vita adulta - alla normalità?

giovedì 5 giugno 2014

La deiezione come cifra nazionale (parte I)


Gli italiani e la merda.

Premessa: questo post vuole solo essere una sorta di osservazione-suggerimento, con tanti punti di domanda e sospensione. Forse, direi, più un invito a esplorare un modo di pensare che, nella sua paradossalità, ci aiuti a riportare la dimensione oscura del nostro vivere collettivo (la dimensione "impossibile", direbbe Lacan), sotto le lenti di una ragione non più soltanto ideologica. Mi riferisco all'idea di un'interpretazione dei movimenti storico-politici - rigorosamente a posteriori - sulla base di indizi culturali intepretabili come sintomi di un non detto.

Parto da un'osservazione molto poco scientifica e universale, in quanto si basa solamente sulla mia esperienza personale e sulla mia imperfetta conoscenza di sole tre lingue. L'osservazione è che in italiano le parolacce a sfondo fecale hanno una centralità che in francese o in inglese non hanno. Andando all'ingrosso, in inglese la triade di parolacce più comuni risulta più o meno fuck / shit / bitch - ma con una decisiva preponderanza della prima. Shit, infatti, si usa per lo più soltanto come esclamazione di disappunto. Simile la situazione mi pare in francese. In italiano, al contrario, merda si utilizza molto anche per qualificare qualcuno come persona non grata, tanto che le si affianca un quasi-sinonimo come stronzo, usatissimo e pressoché senza equivalenti in inglese e francese.

Ora, qui essenziale è riconoscere che, se a prima vista parrebbe che l'uso dipenda dalla sgradevolezza e dalla bassa dignità dell'escremento, cui quindi si vorrebbe equiparare la situazione o l'avversario, in realtà Freud ha ben riconosciuto come la sgradevolezza in esame sia il risultato di un processo di inversione che capovolge l'originario elemento piacevole collegato, nell'infanzia, agli escrementi medesimi. Del resto, anche lasciando perdere Freud e successori, è evidente che il disgusto che noi in media proviamo per gli escrementi non si giustifica realmente sulla base della natura della cosa. C'è nella merda, almeno in qualche senso, dell'osceno. Si tratta, mi verrebbe quasi da dire, di esprimere il nostro costitutivo amore-odio per l'Altro, escludendolo dal proprio orizzonte di rapporto sociale (dandogli dello schifoso inguardabile) con lo stesso gesto con cui facciamo appello ad un qualcosa che anticamente fu per noi soddisfacente e intimo, e che la stessa Legge sociale ci ha costretto a simbolizzare nel suo contrario. Ma, come vedremo, c'è anche dell'altro.